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Enozioni intervista Filippo La Mantia, oste e cuoco con la Sicilia nel cuore

Filippo La Mantia, oste e cuoco (come ama definirsi) del suo ristorante ‘Filippo La Mantia‘ di Milano, ci racconta perché è così orgoglioso di essere italiano, come crede che il mondo cambierà dopo la pandemia Covid-19 e perché essere fedele al suo DNA e ai suoi valori è il segreto del suo successo.

L’intervista:

Il mondo intero è coinvolto da questa pandemia globale. Prima di tutto, che messaggio sente di dare ai suoi clienti e soprattutto ai suoi colleghi?
Sinceramente non mi sento di dare messaggi. È successo qualcosa che va al di sopra di tutti noi e credo che non ho risposte. Penso che oggi bisogna vivere alla giornata e cercare di proteggerci e proteggere gli altri con comportamenti sani e sicuri per il prossimo. Ho deciso di eliminare ‘io’ e di utilizzare solamente ‘noi’.

Si dice che dietro ogni problema ci sia sempre un’opportunità; questa pausa forzata non è facile da affrontare ma potrebbe averle anche dato modo di riscoprire il valore del tempo e l’occasione di poter studiare e sperimentare con maggiore calma. Cosa, di positivo, pensa uscirà da questa situazione?
Sicuramente abbiamo, tutti noi, ritrovato tempo e spazi prima non considerati. Ero troppo preso dalla velocità, dal produrre, dal dimostrare, dal materiale. Aggettivi di cui ci nutrivamo tutti. Soprattutto a Milano. Passato il primo periodo di pazzia, ho cercato di essere freddo, distaccato e razionale. Ho ammesso a me stesso che nulla si poteva e si può fare. Ho cercato di concentrarmi sulla mia famiglia, la casa, forse una normalità cercata e mai trovata. Ho cercato di ripropormi in una nuova versione. Certo, l’angoscia dentro resta. Le incertezze per il lavoro, per i miei ragazzi, per quello che avevo immaginato e per gli investimenti fatti. Ma la situazione è questa e forse, come a tutti, è andata male. Ma fino ad oggi mi accompagna la salute. Le cose positive che si formeranno credo siano i rapporti con le persone, valorizzare altro, renderci conto che siamo vulnerabili, che dovremmo essere più umili e che senza la salute non siamo nulla, a prescindere dallo stato sociale. 

Come si sta preparando alla ripresa dopo i dolorosi sacrifici e lo stop forzato in questo periodo di emergenza? 
La mia ‘ripresa’ è e sarà cadenzata da quello che succederà a livello di contagi. Intanto da un mese ho ripreso a fare le consegne nelle case. mi ha permesso di avere un contatto costante con i miei clienti. Da molto pubblico le mie ricette sui social da replicare nelle case. Ho accettato di cucinare per il Niguarda. Dal 4 maggio abbiamo riaperto, parzialmente, con l’asporto dal ristorante dalle 8 alle 18. Ma dato che sono un motociclista ho iniziato a fare le consegne nelle case e la gente è anche molto contenta di vedermi in questa veste. In fondo prima venivano loro da me e adesso vado io da loro.

L’emergenza Covid-19 sta riscrivendo le regole dell’enogastronomia. Come immagina il futuro della ristorazione quando tutto sarà finito?
Penso e credo che si ritornerà ad una cucina che avvicini i grandi chef stellati ad una clientela locale. Quindi ritorno ai piatti tradizionali ed una ambientazione più umana, credo. Chi ha sempre comunicato con i clienti, chi si è messo sempre a disposizione, chi ha concesso alle persone di utilizzare il proprio ristorante come una casa, ecco, la gente cercherà quello. Si valuterà tutto rispetto a quello che hai dato in passato: umiltà, altruismo e sorrisi.

Qualcuno sostiene che il “food delivery” rappresenti un valido supporto ai ristoratori… la teoria può essere applicata anche alla cucina d’autore?
La domanda suggerisce che pensiate che io faccia una cucina di autore. Non ho mai fatto quel tipo di ristorazione. Ho solamente fatto qualcosa che mi piaceva. Cucinare per gli altri piatti della mia tradizione, di casa, raccontati da contadini e dare alle persone di trovarsi in vacanza attraverso il cibo. Il food delivery si sta rilevando un prezioso alleato. Come dicevo prima, ha permesso di non interrompere il rapporto tra noi e loro. Ovviamente devi progettare piatti che si possano spostare ed essere consumati discretamente bene. Ovvio, mangiare in loco e altra cosa!

Secondo lei quali saranno i trends che influenzeranno la ristorazione del futuro?
Il trend si crea secondo le esigenze e la modalità di lavoro che cercheremo di attuare a breve. Sicuramente il rapporto sarà differente. La comunicazione attraverso i gesti e gli occhi aumenterà. Il rapporto visivo cambia. All’inizio non parlerei di trend ma di percezioni, con cui sviluppare nuovi trends.

Se fosse l’ispettore di una guida enogastronomica dopo il coronavirus, quali criteri di valutazione prenderebbe in considerazione?
Con tutto rispetto per le guide e per gli ispettori, non ho mai preso in considerazione questi argomenti. Faccio questo lavoro da 25 anni e sono stati 25 anni di marciapiede, per fortuna. Non è quello un mondo che mi interessa. Ho sempre avuto problemi con ‘loro’. Si vede che non sono presente nelle guide o mi danno sempre voti di sufficienza. Forse sarebbe ora di fare dei criteri di valutazione riguardante gli ispettori. Riprendo una frase del mio amico Edoardo Bennato: “siamo tutti allenatori davanti la televisione”.

Il fine-dining ritornerà o rinascerà?
La cucina raffinata, per parlare italiano, è molto soggettiva. Ci sono quelli che la capiscono, quelli che si atteggiano a capirla, quelli che la frequentano per darsi un tono. Quelli che devono esserci per appartenere ad un giro. Può essere cibo raffinato anche un panino con la milza mangiato al mercato del capo a Palermo. Io mi ritrovo meglio al capo.

Parliamo di cose positive: qual è stata la sua ispirazione nel creare il suo attuale menu degustazione? 
Io non ho mai fatto menu degustazione. Ho la passione per il ‘mangia quello che vuoi’: se non c’è in carta e tu lo vuoi, te lo cucino. 

Ci racconti del suo piatto del cuore, il “signature dish” che più di tutti la identifica, cosa lo rende unico e se lo rivisiterebbe in futuro.
Il piatto che credo vendo di più in assoluto e che più mi rappresenta è la “caponata di melanzane”. Piatto simbolo, esempio di famiglia, di convivialità, di terra e di nutrizione. Potrei raccontare decine di storie sulla caponata. Non la trasformerei mai, la gente l’ha adottata da 20 anni ed appartiene a loro.

Sostenibilità, un argomento sempre più di tendenza ultimamente. Quale pensa sarà l’impatto post-Covid-19 sui ristoranti fine-dining in fatto di sostenibilità?
Bisogna a tutti i costi rispettare l’ambiente. Penso che lo abbiamo capito. La natura si è riappropriata dei propri spazi. Le acque si sono ripulite, il cielo è limpidissimo, si è riequilibrato tutto. Noi, umani, abbiamo sempre sporcato tutto come se non ci fosse un domani. Il pianeta terra è massacrato dall’uomo e nulla succede per caso. 

Il suo ristorante ha un posto speciale nel suo cuore; ci racconti alcuni momenti che ricorda ancora quando ha aperto e quali sono state le sue maggiori sfide quando ha iniziato.
Sono sempre stato un visionario. Milano rappresentava un grande punto di arrivo. Ho ricominciato daccapo. Ho preso uno spazio grande, impegnativo, costoso e forse perché ho sempre avuto una visione allargata di questo lavoro. Ho investito tutto quello che avevo. Ho sognato, immaginato, creduto e vissuto un progetto, per me, sommo. L’unione di tutto quello che avevo fatto nella mia vita. Uno spazio che accogliesse tutti. Sarò sincero, non immaginavo di lavorare così tanto. Non lo avrei mai pensato. Milano è la città dei grandi progetti, dei grandi chef, dei grandi alberghi. Probabilmente mi ero inserito in un segmento che mancava: design, architettura, cibo di casa e rispetto. Come leggete, oramai scrivo al passato.

Con la sua cucina, lei è interprete e testimonial di una filosofia che va oltre il semplice cibo. Ha creato un universo e un DNA potente e riconoscibile. Quali pensa siano i fondamentali del successo?
Diciamo che io sono figlio di Palermo e della Sicilia, quindi dispongo di un terreno fertile su cui muovermi. Da noi c’è di tutto: storia, tradizione, ingredienti, passione, cultura e sono alcuni elementi che sono stati lasciati da popoli che hanno abitato la nostra isola nei secoli. Basti pensare agli arabi e a tutto quello che ci hanno lasciato. Basta solamente rispettare la nostra storia. Il successo probabilmente è contenuto nel fatto che io ho sempre fatto da cantastorie. Ho raccontato attraverso i gesti, le storie ed i piatti un’isola che ricorda belle cose, vacanze meravigliose ed abitanti votati all’ospitalità, a prescindere da chi sei e da dove vieni. Per noi l’ospite è sacro e va trattato bene

Se ci fosse una cosa di sé stesso che vorrebbe cambiare quale sarebbe?
Ho una parte del mio carattere che non mi piace. Mi arrabbio, compromettendo molte volte i rapporti sociali, con chi è maleducato, falso e senza dignità. quelli che parlano dietro e che fanno i fenomeni. Ed in questo ambiente, come negli altri, ce ne sono parecchi. Vorrei andare oltre, ma non ci riesco ed oramai a 60 anni non si può più cambiare. Poi vorrei cambiare i continui sensi di colpa con cui un siciliano vive perennemente. 

Qual è la sua frase o il suo motto preferito?
Ogni giorno è il primo giorno.

Se non avesse fatto lo chef, che cosa le sarebbe piaciuto diventare? 
Io non faccio lo chef, perché non lo sono. Io faccio qualcosa che ha a che fare con la cucina e con l’ospitalità. Ho fatto tantissime cosa prima, durante e forse dopo le farò ancora. Ma sicuramente sono un motociclista con la passione della fotografia, che suona l’armonica e che cucina. 

Come definirebbe il Made in Italy in tre parole?
Bello, divertente e onesto.

Caponata di Melanzane © Filippo La Mantia
Caponata di Melanzane © Filippo La Mantia

Ristorante
Filippo La Mantia
Piazza Risorgimento angolo, Via Carlo Poerio, 2/A
20129 Milano MI

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